Questo è decisamente l'anno delle maschere.
Maschere costruite, maschere rivelate, maschere frantumate, maschere abbozzate, maschere sovrapposte.
Ci sono luoghi che ho sempre identificato come preposti per indossare maschere, ma adesso sto realizzando che forse sono gli unici spazi in cui in realtà non vengono utilizzate.
Qualsiasi azione compiamo è sempre in funzione di una reazione, nostra o di chi ci sta intorno. Credo sia qui, in sintesi, la questione.
Compiacere: fare di buon grado la volontà altrui
Accondiscendere: dare il consenso a richieste o pretese di un'altra persona
Un sorriso di circostanza, un cenno di assenso, uno sguardo d'intesa. Gesti aggreganti, che ci fanno avvicinare ad altre persone, che ci fanno accettare da chi ci sta intorno. E per ogni gesto una maschera, per ogni occasione un travestimento.
Molti negano di essere vittime di questo meccanismo perverso, e si nascondono dietro "la maschera" della sincerità, della trasparenza, della spontaneità.
Ma in fondo "sii spontaneo" è il re dei paradossi, il tremendo doppio legame!
Se la gente fosse veramente spontanea non esisterebbero legami, oppure esisterebbero legami così profondi, veri e sinceri che non li riconosceremmo, perchè troppo puri, senza vizio, senza costruzione.
"Il tempo è un gran dottore", ecco un luogo comune insopportabile. Lo scorrere del tempo è veleno per la spontaneità, ci allontana lentamente dalla nostra natura, ogni esperienza vissuta diventa un vestito che noi inconsciamente indossiamo, per non levarcelo più. Ogni situazione, ogni contatto, ogni emozione, ci sporca l'anima irrimediabilmente, e forma altre maschere, a volte per proteggerci, a volte per aiutarci a rivivere o a prolungare una sensazione.
E sempre più spesso mi rendo conto di quanti travestimenti ho conosciuto, di quante maschere ho incrociato con lo sguardo, di quante ne ho costruite nella mia mente e proitettate sul volto di chi mi stava di fronte, per vedere quello che in quel momento mi serviva, o per allineare quella maschera alla mia.
E così mi ritrovo a contare le mie, di maschere. A raggrupparle tutte, a raccoglierle tra le mani, a osservarle.
Le ho indossate per non deludere, ma forse a volte sono state causa di disincanto.
Maschere che mi hanno ferito, maschere che mi hanno assecondato, maschere che non ho mai compreso.
E' tutto così faticoso, e inevitabile. Ma è tutto così vero e autentico. La maschera ideata, costruita, interpretata da una persona, non è in fondo solo una sfumatura della sua completezza?
Ciò che creo non fa comunque parte di me?
Allora forse il travestimento è solo la scelta di mostrare in un preciso momento solo una parte di noi. Non è una menzogna, è una verità parziale, incanalata, dedicata.

Paradossalmente mi ritrovo a vivere un momento della vita a stretto contatto con la recitazione, con il teatro, con un luogo che nel mio immaginario è sempre stato composto da finzione, da azioni artefatte.
E invece scopro che lì non trovo maschere, che riesco a vedere i volti, gli sguardi, la natura vera dell'uomo.
Uno spazio in cui il tentativo è quello di strappare quei veli che il tempo e la vita ci hanno calato sulla pelle, per guardare dentro, per cercare sotto al guscio, per pulire un po' l'anima.
Imparo come sia più difficile simulare un'emozione che non ricercarne una vera, autentica, solo nostra.
Mi soprendo a riconoscere una sensazione, a dargli un nome, una forma, un colore, come se stessi assaggiando un frutto per la prima volta, di cui non conosco il sapore e la consistenza, e più ci provo più mi accorgo che non serve a niente tenere in mano quel frutto per tentare di intuirne il gusto, bisogna solo portarlo alla bocca, e morderlo.


 

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